L’opera di Salvatore Pizzo appartiene a quella felice declinazione in segno della poesia che è stata chiamata “poesia visiva” o “scrittura visuale” improntata sulla comunicazione di una possibile percezione lontano rimando culturale ed esperienziale che, nell’opera dell’artista, ci appare tradotta nella grammatica sovrapposta da più piani d’osservazione che restituiscono globalmente la complessità di un sentimento nella sua asintotica effimera natura. La materia impenetrabile del piombo o la natura estroversa e fragile del plexiglas diventano per Pizzo terreni opposti ma entrambi possibili, in cui la parola scritta, fratturata, incompleta, taciuta, può essere scolpita o tatuata per diventare custode o messaggero di un mondo interiore, di un mondo ulteriore rispetto a noi. Questa sovrapposizione di piani espressivi consente alla luce di essere protagonista dell’opera e a comportarsi come un elemento della struttura globale. Essa nel suo mutare, infatti, cessa di essere un semplice aiuto per illuminare una forma nello spazio contesto e diviene grammatica scultorea e segnica mediante accenti ed ombre. Il risultato finale a cui Pizzo perviene è di un barocchismo di forme, segni e materia che racconta il viaggio di un uomo: la memoria di un volo “sognato”, il brivido di un volo “spiccato”.

Antonio Vitale, 2016