Fogli, lamine di materie
di Aldo Gerbino
Il «vólto» affiora, nella sua semplicità espressiva, dal grigio torpore di un foglio, da un’ombra rassegnata in quel malinconico apparire di un lieve bagliore, di una luce crepuscolare capace di porre in evidenza uno statuto corporeo e spirituale di transizione. E proprio da esso si dipana una sorta di mestizia, un abbandono, quasi una negligenza dei sensi a favore della virtù del silenzio e dell’attesa in cui tutto, non a caso, appare coagulato nello sguardo che s’intravede, o che si oppone all’urgenza onirica costruita nella memoria, nel pallido fluire dei segni. Per tale accoglimento d’immagini, Salvatore Pizzo s’impone col suo affetto verso la parola che si manifesta, sommosso da vivide e corrose icone, dai suoi scomposti frammenti assorti sulla lastra delle carte inumidite, o, a volte, irrimediabilmente deposte su garze, su bianchi reticoli. In un certo senso sono macerie manipolate, in seguito offerte, più che all’osservazione, alla condensazione semiotica. Segni, appunto, simboli compressi, articolati marchi in forma di pigmenti, di attorte densità, di mappature rettangolari, informi cuboidi, e, da tutto questo, ecco affiorare quasi un ectoplasma, la linea di un occhio, una guancia femminile, una presenza tagliata per piani geometrici, impegnata, nel suo districarsi, a mostrare materia di sé. Sono spesso stralci di giornali a invadere la superficie espressiva, fogli invasi da parole, oppure un lettering sommerso in una atmosfera illividita. Essa tenta di travalicare il suo orizzonte euclideo, altre volte lo sopravanza, così per tali linee, per distorti frammenti ispirati al décollage rotelliano, o, affiorando dal décupage, si assottiglia, perde a poco a poco i propri contorni e allora la materia appare sospinta dalla forza di un graduale disciogliersi per poi addensarsi lungo ampie testimonianze di colore, nei tanti stralci fatti da nastri cromatici ora integri, ora decorticati, scollati dalla loro piattaforma originaria. E così, macchiato nella sua natura più intima, il prodotto dice di sé, del suo essere oggetto di solitaria sperimentazione, del continuo provare, accogliere suggestioni, catalogare sensazioni. Le linee spesso sembrano esaurirsi e dilacerarsi in macchie policrome, attenuate in semplice materia in cui l’acqua, vista come mobile collante, gioca un ruolo non indifferente; altre volte tale dilacerazione assume toni informali, gestiti da una coltre di frammentate emersioni, di scaglie, tracce, di screpolature, singole sillabe, a volte impronte tradotte in rumori. Da tutto questo il letto d’immagini che si forma indica ‘giunzioni’ tra svariati segnali, l’armonico sviluppo di un paesaggio che, se si è nutrito negli anni della sua geologia e morfologia, non a caso fa ritorno in quell’entroterra metafisico di siciliana terra nissena, nel voler restituire a Salvatore (consapevole figlio di Serradifalco) il paesaggio, la memoria, i possibili ponti che da questi gli consentono di navigare in un presente problematico e contraddittorio, in cui lingua, scrittura, percezione della realtà circostante appaiono permeate e rivoluzionate dall’iperbole della condizione informatica, da una comunicazione dell’etere che ne raggela i contatti e che, allo stesso tempo, promuove un ossessivo viaggio all’interno dello spazio reso sempre più ridotto e inebriato.
Tali pieghe su carte macerate, spesso in procinto di offrirsi all’inventiva, alla ri-creazione, alla sollecitazione di Pizzo, si ordinano in un diagramma fatto di riflessione creativa e in cui il gioco o l’analogia da esso espunta, si accostano alle vicissitudini della vita, alle similitudini con la natura il cui ecosistema appare oggi così gravemente compromesso.
Tutto vuole rientrare, con Salvatore, nel ‘con/testo’, appunto, del suo essere uomo della mano e della mente, come se tale sua rigettata onda di sapore neodada, potesse ripopolare un personale mondo intimo, il suo lavoro, il suo stesso vago sentimento.
Palermo, marzo 2013
Sheets, foils of matter
of Aldo Gerbino
The “countenance” emerges, in its simplicity of expression, from the gray dullness of a sheet, from a resigned shadow in that melancholy appearance of a slight glow, twilight able to highlight a bodily and spiritual state of transition. From that transition it unravels a kind of sadness, abandonment, almost a neglect of the senses in favor of the virtue of silence and expectation in which everything, not surprisingly, is seems to be coagulated in the gaze that glimpses or opposes the dreamlike urgency built in the memory, in the pale flow of the signs. For such acceptance of images, Salvatore Pizzo is imposed by his affection for the word that is revealed, that is commoved by vivid and corroded icons, by its broken fragments absorbed on the sheet of the moist cards, or, at times, hopelessly laid on gauze, of white lattices. In some way you could say they are manipulated ruins, subsequently presented, rather to the observation, to the semiotic condensation. In fact, they are signs, they are compressed symbols, and articulated brands in the form of pigments, in the form of contorted densities and of rectangular mappings, of shapeless cuboids, and from all of this, here it emerges almost like an ectoplasm, the line of an eye, a women’s cheek, a presence cut into geometric planes, engrossed in extricating herself, to reveal the matter of herself. They often are newspaper and magazine pieces to invade the surface of expression; they are sheets invaded by words or a lettering deep immersed in a gloomy atmosphere. The atmosphere attempts to go beyond its Euclidean horizon, but sometimes it overcomes this horizon, therefore, through these lines, through the distorted fragments inspired by Mario Rotelli’s dècollage works or emerging from decoupage, the atmosphere thins and gradually loses its contours and then the matter is pushed by the force of a gradual meltdown and soon after it thickens again along wide evidences of color, and along the many brushstrokes made from intact and shelled alike chromatic ribbons, unstuck from their original platform. Therefore, spotted in its most intimate nature, the product tells of itself, of its being the subject of a solitary experimentation, of a continuous experience, receiving grandeur and cataloging feelings and sensations. The lines often seem to run out and teardown into polychrome stains, diminished into simple matter where water, considered as a floating binding agent, plays a significant role; sometimes the laceration takes an informal shade (hue) which is run by a layer of fragmented emersions, of flakes, of traces, of cracks, of single syllables, but sometimes the laceration becomes imprint translated into sounds. From all this the bed of images that takes shape indicates ‘junctions” (links, connections) among different signals, among the harmonious development of a landscape that, if it was nourished during the years of its geology and morphology, not surprisingly returns to that metaphysical Sicilian hinterland of Caltanissetta, which is willing to return to Salvatore (a true son of Serradifalco) the landscape, the memory, the possible bridges that may allow him to navigate in a problematic and contradictory present time, where language, writing, perception of the surrounding reality appears to be permeated and revolutionized by the hyperbole condition of the informatics era, by communication that is performed through the ether that freezes all human contacts and, at the same time, promotes a haunting journey within a pace which has become increasingly reduced and inebriated. These macerated folds of paper, often on the verge of offering themselves to the inventiveness, to the re-creation, under the solicitation of Pizzo, they are arranged into a diagram of a creative reflection where the game or the analogy of it expunged, approach themselves to the troubles (vicissitudes) of life, to the similarities with nature whose ecosystem is now so severely compromised. Everything is willing to come along with Salvatore, into the context, indeed, of his being a man of hand and of mind, as if that rejected wave of neo-dada taste of his, could repopulate his personal inner world, his work, his own vague feeling.
Palermo, March 2013